V I R U L E N T I A

Aldo Braibanti [1]
arteideologia raccolta supplementi
nomade n. 9 dicembre 2014
OÙ NOUS SOMMES EN HIVER
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VII - L'approdo a "Virulentia", negli anni '60, non è stato indolore. Sembrava allora che ogni istanza libertaria fosse un flashbak inutilizzabile, oppure, per sopravvivere, dovesse scivolare verso future eversioni, e, di conseguenza, verso prospettive e metodi autoritari, non dissimili da quelli combattuti. Era facile per me respingere tentazioni eversive, ma più difficile mi risultava vivere una impietosa e continua crisi d'identità.
Nel periodo intermedio tra "Il Circo" e "Virulentia", dopo una costante collaborazione con Sylvano Bussotti e un breve incontro con Carmelo Bene, cominciai a sentire improrogabile il bisogno di una regia totale, comunque non divisibile con altri collaboratori. Era quello il tempo in cui sognavo teatri galleggianti, palchi sospesi a mongolfiere, sale con le pareti mobili, villaggi interamente coinvolti nell'azione drammatica, sedi extrateatrali di spettacolo, e, soprattutto, teatro di strada.
Tutta questa effervescenza si raccoglieva in quella operazione che chiamavo "Cartella Tofner", di cui "Virulentia" diventava una velina, la cartella poi si sarebbe allargata in un'operazione ancora più vasta, per spazi e durata, cioè "BaUm". Se "Virulentia" non è mai terminata, neppure nella stesura cinematografica, "BaUm" è rimasto sempre una promessa a lunga scadenza.
L'idea di "Virulentia" è del 1946, ma i primi "Bandi" si sono celebrati nel '65 a Roma, dove mi ero gia spostato dal 1962.
Il tema più generale di "Virulentia" era la lotta radicale e non violenta contro ogni violenza, soprattutto contro la sua forma più insidiosa, cioè la persuasione occulta. Chiamavo "Bandi" una serie di spettacoli autonomi e monografici, che preannunciavano lo spettacolo finale, in cui il tema si sarebbe espresso totalmente, integrando gli stessi Bandi, che in sostanza erano appunto variazioni su tema. Il decimo Bando avrebbe avuto una stesura teatrale e una stesura cinematografica, l'una relativamente speculare all'altra. Purtroppo, un assurdo periodo di carcerazione interruppe nel 1967 il mio lavoro e, quando nel 1970 lo ripresi, ormai l'operazione si era caricata di troppe valenze per poter arrivare serenamente in porto.
Comunque ho continuato, allora e anche dopo con l'"Anticrate", quel tipo particolare di laboratorio che chiamavo teatro di posa. Si trattava di un complesso giuoco di specchi tra cinema e teatro, mirante a far emergere il tema della "virulenza", intesa come un risveglio energetico dopo una lunga incistazione, risveglio in sé stesso neutro (come il cavallo di centro del mito platonico dei tre cavalli), ma nel dramma utilizzabile come arma contro la violenza. Tuttavia, nonostante promesse a non finire, nessuno mi ha aiutato finanziariamente e produttivamente a concludere "Virulentia", sia sul set teatrale che cinematografico. 

VIII - "Bando", alla lettera, voleva significare annuncio, grido del banditore, canto dell'araldo: come scriveva un giornale in quegli anni, tutta la città ne diventava un palco naturale.
Il primo Bando descriveva la nascita dei nomi delle cose, e si svolgeva simultaneamente in quattro diversi luoghi extrateatrali.
Il secondo Bando era centrato sulla paura, e si teneva nel grande studio di pittura di Giancarlo Nanni, allora mio aiuto.
Il tcrzo partiva dall'"orgone" di Reich, e si rappresentava in un circolo proletario, dove tenevo anche una mostra di collages insieme a Gianpaolo Berto. Il Bando sfociava in un dibattito come in un naturale complemento.
Il quarto Bando avvenne sulla spiaggia di Ostia, il quinto nella piazza di Ostia Antica, e il sesto e settimo nel Teatro del Leopardo, utilizzato in tutti i suoi ambienti.
Il quarto, il quinto, il sesto e il settimo Bando avevano un tema in comune, cioè il giuoco, il giuoco "diletto", in tutte le sue variazioni, compresa la sua risoluzione nel "delitto" sociale.
L'ottavo Bando centrava il problema dei cerimoniali, partendo dal rito del tè giapponese. Ma questo Bando, e il nono sulla persuasione occulta, non arrivarono alla presentazione pubblica, perché nel 1967 fui arrestato.
Nei due anni di prigione mi abituai a considerare nono Bando la mia stessa situazione coatta, e di qui nacquero, su fogli volanti, "Graph", "Ododrama" e "Theatri Epistola", raccolti nel volume edito da Feltrinelli.
Il decimo Bando avrebbe dovuto essere la rappresentazione finale, ma dopo le difficoltà produttive, il laboratorio di "Virulentia" si risolse naturalmente, nel 1973, in quello dell'"Anticrate".
Gli attori dei Bandi non erano professionisti, ma venivano scelti da me in base a provini centrati sulle possibilità dialogiche.
Anche il pubblico veniva scelto, e a numero chiuso: il primo Bando era per soli giornalisti, il secondo per pittori, il terzo per operai, il quarto per bambini, il quinto, il sesto e il settimo per musicisti.
L'attore agiva in mezzo al pubblico, ma non era prevista alcuna provocazione. Il coinvolgimento, semmai, avveniva in forma di sollecitazione e di richiamo mnemonico.
Io agivo personalmente tra gli attori, cercando di interpretare il ruolo di corifeo, sia attraverso un partner, sia in un dialogo diretto con gli altri operatori. 

IX - Nell'operazione di "Virulentia", lo spettacolo aveva inizio dal primo giorno di laboratorio, nel quale regista e operatori erano pubblico a sé stessi. Ogni prova era uno spettacolo intero, e via via gli invitati alle prove componevano l'immagine di un pubblico. Le singole prove si integravano tra loro, come singole cellule di un organismo, nello spettacolo finale, che era insieme il prodotto della saturazione e una sua variazione. Effettivamente non c'era limite a questa progressiva saturazione: si dava il nome di spettacolo alla prova che la regia riteneva più matura e più integrata. La saturazione avveniva anche nella progressiva occupazione di tutti gli spazi dentro e fuori il palcoscenico: l'attore si abituava progressivamente all'idea di uno spazio totale, che abbattesse le pareti chiuse, e di un corpo proiettato in uno spazio senza gravità, come un astronauta che in ogni luogo del cielo fosse sempre al centro dell'universo. Questa centralità doveva essere acquisita non come reificazione del primato umano, ma al contrario come drastico ridimensionamento dell'uomo, del suo corpo e della sua cultura.
Ogni attore veniva posto fin dall'inizio nella critica e provocatoria situazione di uno strip-tease culturale, che, eliminando via via i vari gradi di esibizione, lo lasciava alla fine nudo nella sua più grande povertà di gesto e di linguaggio. Si trattava di una regressione infantile non finalizzata ad alcuna terapia: l'operatore si metteva nelle condizioni migliori per spogliarsi dei comandi sociali. Lo psicodramma era dunque solo un aspetto, del tutto strumentale, della interpretazione.
Gli esercizi si dividevano in tre fasi. La prima era il "decollage analinguistico", la seconda l'"improvvisazione automatica", e la terza la "dialogazione contestuale".
In queste pagine non posso che accennare brevemente alle caratteristiche delle tre fasi.
Nella prima il testo veniva diviso in tante "microscene", alcune delle quali riducibili a una sola battuta. Ogni microscena, intesa come un microcosmo che conteneva in sé tutto lo spettacolo, veniva destrutturata, fino a ridursi a una pura proposta gestuale di tipo automatico. La dissoluzione di tutti gli elementi "connettivi" della battuta lasciava indenni solo i nomi e i verbi, cioè gli oggetti e i loro movimenti. Gli operatori scavavano in sé le accezioni più personalizzate di questi nomi e di questi verbi, trasformandole, come dicevo, in movimenti automatici, cioè non casuali, ma dettati dalla saturazione, secondo il criterio dell'unica improvvisazione possibile. In un giuoco alterno, le parole divenivano gesti, e i gesti venivano automaticamente tradotti in nuove parole, fino a che l'attore si trovava in mano una battuta che, se il processo era stato rigoroso, si rivelava alla fine come una variazione del testo, cioè una sua conferma.
La seconda fase cercava nel materiale contestuale così accumulato le costanti individuali, attraverso le quali l'operatore riconosceva le proprie peculiarità caratteriali, da utilizzare per interpretare in modo singolare il carattere del personaggio, al di là di ogni tentazione tipologica.
La terza fase era il ritorno al testo, finalmente posseduto, e il suo arricchimento con l'integrazione delle parti più vitali del materiale contestuale. L'attore compiva così un vero viaggio, simile al "trip" psichedelico solo nel rifiuto di una concentrazione intellettuale, e nella ricerca della meditazione attraverso un processo di radicale "deconcentrazione". 

X - Scopersi più tardi che, nonostante le innegabili affinità, mi divideva da Grotowsky il suo aristocratico concetto di "santificazione", non del tutto privo di residui misticheggianti, e propenso alla torre d'avorio di un'elite che tuttavia non rifiutava il "mecenatismo" del potere.
(continua) Dal Living Theatre, invece, mi distingueva il taglio religioso e messianico che esso dava al messaggio libertario. Grotowsky poi attribuiva alla parola uno spazio a mio parere ancora troppo ampio, e lo stesso Living credeva ancora a qualche sopravvissuta forma di rappresentazione, dato che l'urgenza del messaggio che si proponeva non lo faceva sempre attento alla indivisibilità tra forma e contenuto, e alla necessità di identificare messaggio extrapoetico e linguaggio poetico.
Restava per me fondamentale il principio che ogni prova era un cosmo intero, che in qualche modo riproduceva lo stesso processo biologico. In ogni intervento, come nell'integrazione dei vari interventi tra loro, l'operatore seguiva lo schema funzionale orgastico, secondo le fasi di "rarefazione - condensazione - palteau - saturazione - scatto".
Questa tecnica non presupponeva una concezione ciclica del lavoro. Se non c'è scatto che non instauri una nuova rarefazione, non c'è rarefazione che sia identica a un'altra. Il meccanismo utilizzato si caricava così dei colori della premonizione, cioè di quella ipotizzazione del prossimo futuro che nasce dal pensiero saturo di passato. (In un dibattito sono stato confrontato ai topi di chiavica che avvertono l'arrivo dell'acqua). Ma, fuori dalla ricerca teatrale, tutto questo per me non era una novita: nel senso suddetto, la poesia è sempre un presagio. 

XI - Per quanto avesse fini diversi, lo psicodramma teatrale non poteva non sfiorare continuamente i campi diagnostico e terapeutico. Ma di fronte all'emergere di istanze del genere, compito della regia era quello di individuare due sbocchi diversi. Un eventuale bisogno diagnostico e terapeutico doveva chiaramente essere dichiarato estraneo alla continuazione dell'operazione teatrale, perché rientrava nei bisogni e nelle scelte della privacy individuale. Tuttavia erano abbastanza rari i casi in cui le esigenze della terapia psicoanalitica prevalevano su quelli artistici.
I frutti dello psicodramma teatrale venivano invece utilizzati per il conseguimento di una catarsi individuale, precedente a quella collettiva del gruppo operativo, e a quella dello spettatore. E' ovvio che l'accezione stessa della catarsi aveva caratteri peculiari. Non si trattava tanto di un'idea morale, cioè conseguire il bene con una shoccante rappresentazione del male. La catastrofe, qui, si identificava con lo scatto di saturazione, e si riferiva non tanto ai fenomeni della coscienza sociale, quanto all'esigenza fondamentale di integrare l'individuo nella sua globalità, poi l'individuo nel suo gruppo sociale e, ancora, l'individuo e la specie nel loro naturale alveo biologico. Il lavoro di regia presupponeva così un osservatorio d'altitudine, che non staccasse gerarchicamente il regista dall'operatore, ma gli permettesse di svolgere la sua fondamentale azione maieutica.
Ora mi sembra che dovrebbe essere più chiaro il concetto di "uscita dal teatro": si trattava di uno scavo archeologico, alla ricerca di quei legami che univano il teatro all'arte in genere, e il linguaggio artistico alle altre forme di comunicazione, e la comunicazione alle altre forme di conoscenza. Questa integrazione ci allontanava solo provvisoriamente dal teatro, ma alla fine ce lo restituiva non più come termine ideale, ma come strumento provvisorio e deperibile. Per quanto riguarda l'eventuale ricatto della coazione a ripetere nell'iteratio poetica, e, ancora, per le tematiche dei complessi psichici e del loro legame con gli archetipi, una cronaca biografica già ci sposterebbe al posteriore ciclo de "Le ballate dell'Anticrate": ad esso sono arrivato in un momento in cui l’eccessivo privilegio del gesto sulla parola mi aveva creato non pochi blocchi e difficoltà. Comunque, prima dell'"Anticrate", molto del mio impegno per "Virulentia" andava in direzione della sua edizione cinematografica, che, come ho detto, non è mai stata portata a termine. Il breve lavoro di Alberto Grifi sui Bandi, intitolato "Transfert per camera", non può essere considerato, se non per alcuni aspetti documentaristici, parte di questo processo. 

XII - Prima dell'inizio del laboratorio dell’”Anticrate”, c'è stata una mia esperienza singolare di teatro rappresentato: si tratta di un lavoro ispirato al "Filottete" di Sofocle, col titolo "L'altra ferita": l'avevo scritto in prigione, su sollecitazione di Franco Enriquez. Quell'episodio è stato un bagno gioioso in tutte le strutture classiche del teatro, e in un certo senso, una vacanza nella mia ricerca. L'operazione registica, di rigorosissimo impegno, da parte di Enriquez si è pero inevitabilmente scontrata con linguaggio e intenti troppo diversi dai suoi: ne è risultato un lavoro tecnicamente ineccepibile, ma relativamente freddo, come un perfetto disegno geometrico, anche se il prodotto registico finale raggiungeva un innegabile fascino magico. Mi piace comunque ricordare quel periodo e quella collaborazione come un momento felice, durante il quale ho potuto tuffarmi nei fascinosi parametri del "teatro di teatro", senza conflitti formali e senza inutili contraddizioni. Non a caso, il Filottete del mio testo si chiamava Saul Tofner, antico nome del mio identikit: nell'uomo emarginato dalla peste e dalla ragione di stato, specchiavo, con me, tutti quegli emarginati, in gran parte di origine proletaria, che avevo conosciuto nei due anni di prigione. "L'altra ferita" mi ha permesso una collaborazione straordinaria con la musica elettronica di Grossi: questa collaborazione è stata la fortunata occasione che mi ha aiutato a riprendere, senza più indugi, il mio laboratorio.
L'innegabile compromesso de "L'altra ferita" ha avuto più tardi un altro effetto positivo, perché mi ha aiutato, nel 1977, a ricollegarmi ad alcuni motivi del teatro di parola, nell'esperienza sarda de "Il mercatino". 

XIII - Nel periodo di "Virulentia" chiamavo "percorso libero" la parte del lavoro dell'attore che più era legata al decondizionamento della battuta, affidato a un meccanismo automatico che poteva arrivare ad assumere i caratteri di una vera trance. Questo aspetto fu il punto di partenza anche del nuovo ciclo. Il mio Filottete - Saul Tofner si era ridotto all'immagine di un "ometto senza qualità", vittima inconsapevole della violenza, e anarchico "per forza". La favola di questo personaggio, che ho chiamato Anticrate, è quindi l'emblema della ripresa dell'indagine libertaria.
Nel 1949 mi ero laureate in filosofia con una tesi sul "grottesco", riportata ne "Il Circo" e ne "Le prigioni di Stato". A distanza di tempo, l'ometto Anticrate poteva essere considerato una personificazione grottesca: la sua fatica di vivere e di amare, fatica, appunto, grottesca, si poteva risolvere nel fallimento angoscioso, o nella gioia dell'amore spiegato. Il laboratorio dell'”Anticrate” durerà dal '73 al '75, ma avrà un'appendice nella stesura di una trasmissione radiofonica intitolata "Le ballate dell'Anticrate", che spero di realizzare in un prossimo futuro.
Nasceva così un nuovo laboratorio: il suo attore doveva essere individuato per affinità elettiva, e soprattutto doveva rivelare una decisa sensibilità libertaria. Su questo piano c'era una relativa novità: “L'Anticrate” metteva in crisi la stessa istanza comunitaria, in quanto considerava il momento libertario come il costante inizio di ogni processo di liberazione continua: risaliva cioè alla solitudine del punto di partenza.
Il personaggio Anticrate era un mio nuovo identikit, ma era anche l'occasione che poteva fare di ogni operatore un Anticrate. Il laboratorio partiva in pratica dalla contrapposizione tra concentrazione intellettuale e deconcentrazione immaginativa. Solo la deconcentrazione avrebbe potuto configurare un "gesto intero", che potesse coinvolgere il corpo e il suo "posto". Era l'estremo sforzo di passare dal metodo al criterio, portando alle estreme conseguenze le tecniche già instaurate in “Virulentia”.

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[1] - Da "Impresa dei prolegomeni acratici", editrice 28, Roma 1989, pp, 86-92. - Aldo Braibanti, nato a Fiorenzuola d'Arda il 17 settembre 1922, è morto a 91 anni per arresto cardiaco a Castell'Arquato il 6 aprile di quest'anno. - Vedi la sua "Prosa per cinque panphlets", in Aut.Trib. del 1983.